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[Il buco della serratura] Cinque motivi per cui in Italia gli esordienti hanno poche possibilità di essere pubblicati

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Abbiamo pronunciato la parola magica: esordienti! Questo vocabolo è in grado di aprire porte, scatenare discussioni, dividere in fazioni, accomunare e separare, far litigare e riappacificare.

L’esordiente nel nostro Bel Paese è una razza in espansione. Grazie alla diffusione e alla facilità dell’autopubblicazione, sempre più autori alle prime armi offrono agli utenti, agli amici e ai lettori le loro produzioni, che esse siano poesia, narrativa o persino saggistica, in comodi formati ebook ma anche in cartaceo.

Alcuni esordienti asseriscono di trovarsi molto bene con le loro pubblicazioni da parte di un medio-piccolo editore, altri amano la forma dell’autopubblicazione a puntate, altri invece distribuiscono il loro autoprodotto in attesa che una casa editrice major li chiami sotto la loro ala, altri ancora storcono il naso e accusano le case editrici di avere una politica dittatoriale, ipocrita e sfruttatrice, e preferiranno sempre e comunque darsi da fare da soli.

Chi ha ragione? Tutti? Nessuno? Sono nel torto gli esordienti o le case editrici? O l’editoria in generale?

In realtà le motivazioni che spingono le CE a rifiutare (molto spesso a prescindere) gli esordienti sono varie, e più o meno strettamente correlate tra loro. È ovvio che esistono eccezioni, ma queste sembrano confermare la regola che l’autore in erba è quello che meno avrà possibilità di raggiungere il grande pubblico.

Vediamo di capire un po’ perché.

1. Routine mon amour

Ammettiamolo: siamo un popolo abitudinario e che non sopporta bene gli scossoni. Esempio lampante dei lettori italiani è che molti di essi continuano strenuamente a battersi per i libri cartacei e non considerano letteratura gli ebook, per il semplice fatto che si rifiutano intrinsecamente di doversi abituare a qualcosa di nuovo che comporta imparare diverse funzioni, diverse nozioni, diversi modi di pensare.

Questa repulsione al mutamento si traduce anche nelle loro letture: gli esordienti sono qualcosa di nuovo, qualcosa di mai visto prima, quindi perché rischiare di rimanere delusi, di perdere tempo, di addentrarsi in una storia che credevamo fosse così e invece si è rivelata cosà? Molto meglio rimanere sui classici della letteratura mondiale, oppure sulle scrittrici e gli scrittori di fama ben consolidata, sugli emergenti che arrivano da oltreoceano di cui i giornali stranieri hanno parlato così bene, oppure sugli stessi autori italiani promossi dalle big dopo pubblicità talmente martellanti che viene naturale pensare che tanto rumore non si faccia per nulla, no?

In realtà no, ma è molto comodo affidarsi ai rumors e agli slogan, perché un sentiero già tracciato fa comodo soprattutto ai lettori deboli, a quelli che leggono una media di tre libri all’anno e a quelli che leggono un solo genere in tutta la loro esistenza.

2. Le agenzie di distribuzione gli esordienti li deprecano

La distribuzione è qualcosa che ogni esordiente sogna con la bava alla bocca. Buona distribuzione significa avere il proprio libro sparso in tutte le librerie della penisola, la possibilità di essere visto dai visitatori, di essere sfogliato, sbirciato, comprato. Distribuzione significa visibilità, una delle migliori pubblicità passive che esistano al mondo.

Peccato però che molti esordienti ignorino che la distribuzione non è un dettaglio, non è una conseguenza scontata della pubblicazione, non è un passaggio automatico che conduce al successo.

Le agenzie di distribuzione sono società che hanno lo scopo di guadagnare il più possibile, in fretta, e con meno sacrifici possibili (beh, come qualsiasi società in fin dei conti). Sono pertanto loro stesse le prime che – direttamente o indirettamente – consigliano agli editori per cui lavorano di evitare gli esordienti (il motivo sta al punto 1.).

Se una casa editrice decide di distribuire l’autore inglese appena tradotto e l’esordiente appena pubblicato, l’agenzia di distribuzione darà molto più spazio alla promozione nelle librerie del primo, e spingerà debolmente il secondo, in modo da avere un margine di guadagno sicuro che con l’esordiente non sarebbe certo di ottenere.

Per effetto, i numeri di vendita registrati dalla casa editrice del libro dell’esordiente saranno chiari e lampanti, e la CE si sentirà ancora meno incentivata a pubblicarne altri.

3. Alcuni librai fanno i librai perché li hanno bocciati alla scuola per parrucchieri (senza offesa per i parrucchieri)

Il libraio è da anni una figura poetica, romantica, teatrale. Il librario dovrebbe essere colui che si occupa delle anime dei lettori, così come un prete dovrebbe occuparsi delle anime dei peccatori. Il librario dovrebbe stringere un’amicizia letteraria coi suoi clienti, imparare a riconoscere un certo tipo di lettore e sapergli consigliare il tipo giusto di lettura, dovrebbe essere un mentore, un rivelatore, un lume guida in un sentiero oscuro di tanti, troppi libri non adatti a tutti. Dovrebbe.

Si sa che di questo genere di librai è in via di estinzione, così come le librerie indipendenti che devono cedere il passo ai negozi di grandi marchi come Mondadori, Feltrinelli, IBS e via dicendo. Ciò come entra in relazione con gli esordienti?

Così come nel punto 2., anche i librai preferiscono mettere in vetrina titoli già rodati e di sicuro impatto su futuri acquirenti, piuttosto che rischiare il flop con l’autore misconosciuto. A meno di non trovare il venditore irreprensibile – quello che crede davvero che la qualità stia nel contenuto e non nel nome dell’editore, della copertina o della fama dell’autore – ci troveremo spesso di fronte vetrine allestite più in base all’economia che in base al merito.

Per quanto un editore possa aver l’abitudine di allungare la mazzetta al libraio per convincerlo a mettere in bella mostra le sue pubblicazioni, è il librario stesso a guadagnarci con questa pratica, perché quando il cliente vede qualcosa di famigliare e assaggiato, sarà più invogliato ad acquistare, cosa che nella maggior parte dei casi non succede con un nome di cui non sa nulla.

E per quanto possa sembrare puro marketing d’apparenza, vende.

4. Ucci ucci, sento odor di esordiente…

Le case editrici, croce e delizia di qualsiasi autore che possa chiamarsi tale. Esistono quelle piccole, quelle medio-piccole, le medio-grandi, e le big, che rappresentano le vette, le irraggiungibili, il punto di svolta.

Su di loro se ne sentono di ogni. Ci sono quelli che dicono che le medio-piccole sono le migliori in assoluto perché seguono l’autore con cura e perizia come se loro fosse figlio, ci sono quelli che snobbano le big asserendo che sono associazioni simil-mafiose piene di raccomandati e autori finiti lì grazie a favoritismi e nepotismo, ci sono quelli che venderebbero il loro intero albero genealogico compresi gli scheletri pur di essere editi da una major, ci sono quelli che non se sanno una cippa e provano indiscriminatamente a mandare la loro opera a tutte le CE che trovano sul loro cammino e sperano che madre natura gliela mandi buona.

Ora, le case editrici sono aziende, e in quanto tali il loro scopo è lucrare e chiudere l’anno in positivo.

Chi glielo fa fare di pubblicare uno dei millemila esordienti che mandano loro qualsiasi tipo di romanzo che riescono a battere alla tastiera, quando hanno a disposizione traduzioni che in patria hanno venduto centinaia di migliaia di copie, oppure quando hanno a disposizione il calciatore o la velina semi-analfabeti che però solo respirando riescono a farsi comprare a scatola chiusa?

Chi glielo fa fare di puntare sul primo esordiente che passa, se né la distribuzione né le librerie disposte a vendere i suoi libri, non con l’impegno che ci si aspetterebbe?

In Italia si legge poco, e male, e molte case editrici preferiscono affidarsi al colpo sicuro, preferiscono seguire la corrente e cavalcare l’onda del successo finché essa non si prosciuga, anziché rischiare e alimentare una diversità letteraria che potrebbe rivelarsi vincente a lungo termine. E un esordiente, a meno che la casa editrice non spenda migliaia di euro per una campagna pubblicitaria come si deve, non venderà mai quanto i triti e ritriti remake delle 50sfumature o i soliti paranormal romance dalla trama base uscita da un manuale di scrittura redatto da Stephenie Meyer, o entrambi i generi confusamente mescolati in uno.

5. Un autore non è uno scrittore

Abbiamo dato le loro colpe ai lettori, le abbiamo date ai terzi – distributori e librai – le abbiamo date agli orchi cattivi dell’editoria. Adesso è ora di parlare proprio degli esordienti.

La mia affermazione risulterà un tantino calvinista, ma diciamoci la verità: non tutti sono portati per scrivere.

Un italiano su due ha almeno un’opera scritta di suo pugno (o di sua tastiera) nel cassetto, che essa sia un racconto, una raccolta di poesie o il famigerato romanzo. E ognuno di questi italiani è convinto che questa sua opera meriti di essere pubblicata e venduta.

Ora, cari esordienti, vi dirò qualcosa di molto più sconvolgente di quanto avete saputo che Chad Kroeger si è sposato con Avril Lavigne.

Anche se vi siete impegnati terribilmente, anche se avete sputato sangue, sudore e lacrime, anche se avete perso il sonno, anche se avete speso giorni e giorni della vostra vita per scrivere un romanzo che giudicate bellissimo, innovativo, originale, una rivelazione… nessuno ha il dovere di pubblicarlo. Soprattutto se non merita di essere pubblicato.

Gran parte degli esordienti parte convintissimo di essere migliore di tutti gli altri esordienti, e crede fermamente che non appena uno stagista sottopagato della Mondy leggerà il suo manoscritto non potrà fare a meno di mandarlo al direttore di collana, e che questo ne sia così entusiasta da chiamare l’autore a casa e sbrodolare complimenti e offrirgli un contratto che neanche per Stephen King avevano osato tanto.

La dura realtà è che questa gran parte di esordienti non ha la minima idea né di come funzioni l’editoria in generale, né di quanto impegno, quanto tempo, quante rimesse in discussione e quante porte sbattute in faccia servano prima di passare dall’essere un semplice autore a diventare uno scrittore.

L’esordiente medio non ha tecnica narrativa, non ha uno stile proprio e formato da una larga esperienza, non ha idee originali ma si limita a rivisitare dal proprio punto di vista idee banali e abusate milioni di volte. Non si rende conto di quanto per una CE sia complesso promuoverlo come lui vorrebbe, e non concepisce l’idea che ai lettori di tutta Italia possa non fregare una beata mazza del suo esordio. Spesso e volentieri non accetta critiche negative per il semplice fatto che nella sua idilliaca idea di divenire uno scrittore famoso credeva di essere intoccabile, di essere perfetto e idolatrato, e scalcia e batte i piedi quando improvvisamente si ritrova ridimensionato e rigettato dopo pochi mesi nell’anonimato più assoluto.

Nell’era della digitalizzazione e dell’autoproduzione poi ci troviamo di fronte a tutti questi autori che in massa ci propinano le loro opere scritte in un italiano basico, dalla sintassi imbarazzante e dalla capacità narrativa di una patata bollita.

Pochi di loro si fermano a pensare che invece di partire in quarta sarebbe auspicabile allenarsi. Come ci si allena? Leggendo, scrivendo, ascoltando, e prendendo coscienza delle proprie capacità e dei propri limiti.

Un lavoro maturo, insomma, che richiede energie e attenzione costante, concentrazione e coerenza. Per non parlare della propria presenza fisica alle eventuali presentazioni, la disponibilità alle interviste, gli spostamenti per incontrare questa o quella persona che possono dare un minimo di visibilità, l’impegno per la promozione non solo tra gli amici ma anche verso un pubblico più grande e ovviamente sconosciuto.

Scrivere sì, è un passatempo, ma scrivere per pubblicare no, non lo è. È un lavoro, e se non si riesce a svolgerlo bene, tanto vale licenziarsi e cambiare mestiere.

Quale editore assumerebbe un lavoratore che non sa fare bene – o addirittura si rifiuta di fare – tutto ciò che dovrebbe? Nessuno.

 

Quindi, cari esordienti che sognate di diventare il nuovo caso editoriale italiano, frenate un attimo e pensateci.

Pensate che pubblicare professionalmente non è un gioco. Dietro quello che voi considerate un lavoretto da niente ci sono persone che ci mettono i loro soldi, il loro tempo, il loro impegno.

C’è gente che ogni giorno si sbatte per impaginare, per creare la versione cartacea e quella digitale, per trovare la copertina quanto più perfetta (e magari non gli è neanche stata data la possibilità di leggere il libro), per impalcare un adeguato ufficio stampa, per editare, per organizzare.

E gli scrittori veri sanno tutto questo, sanno che ci sono rischi e sanno che a volte è possibile anche fare passi indietro se le cose non vanno come preventivato. Possono subire delusioni, richieste di restituzione degli anticipi in denaro, vedere il proprio contratto essere rescisso per mancate vendite dopo pochi anni, sentirsi dire che verranno sostituiti dall’ennesimo romanzo privo di senso ma che i lettori prediligono (mi ripeto: perché leggono poco e male).

Ben lungi dal ricevere un’ininfluente stroncatura su Amazon per cui molti autori vanno poi a piagnucolare sulle loro pagine Facebook.


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